Venerdì 2 settembre ore 18,00 presso ARTinGENIO MUSEUM, con il patrocinio del Comune di Pisa, avrà luogo l'inaugurazione della mostra personale di Massimo Garrone, in arte MAGA, “Dall’Informale all’astratto”.
In programma un vernissage al quale interverranno il direttore del Museo Francesco Corsi l’Assessore Cultura del Comune di Pisa Pierpaolo Magnani.
PERIODO MOSTRA: dal 2 al 16 settembre 2022
ORARI DI APERTURA: dal lunedì al venerdì 10:00 - 19:00
CONTATTI: ARTinGENIO MUSEUM- OFFICINE GARIBALDI Via Vincenzo Gioberti, n. 39- 56124- Pisa (PI)
PER VISITE GUIDATE CONTATTARE +39 335- 7789135 info@artingenioedizioni.it
Gillo Dorfles (1910-2018), assegnò l’etichetta di “Informale” a quelle forme di astrattismo da un lato completamente aliene alla figurazione, dall’altro prive di un’intenzione semantica. Forme d’arte, prive di forma, nate dalla negazione di qualsiasi schematismo. Eppure il cosiddetto “informale” accomuna svariate forme espressive del Novecento che nacquero nel seno del movimento dada, dell’espressionismo, del surrealismo. Di sicuro la matrice di queste tensioni deflagranti sta nella provocazione e nell’ironia che si fa beffe dell’apparato razionale. Un po’ di aria di libertà per superare le gabbie concettuali dei regimi. Contro ogni asservimento dell’arte, contro ogni finalizzazione, funzione etica e persino sociale, come lo è stato per Guttuso, l’informale termina l’azione artistica con il gesto della creazione. L’arte è puro gesto inscindibile dall’impiego dei materiali utilizzati che diventano protagonisti dell’opera d’arte, spesso oltre l’artista medesimo, quando l’intenzione diventa quella di far parlare l’oggetto con la sua superfice increspata, ruvida, rugginosa, senza spiritualismo alcuno. È il caso dell’arte povera, alla quale il nostro Garrone si richiama in parte. La semplicità dei tappi di sughero o dei sigilli delle bottiglie, materiali di recupero, ne è l’esempio.
Se è vero che l’arte informale è sorta in qualche maniera nel seno dell’arte astratta, che conseguiva all’impressionismo interpretato da Cezanne, allora possiamo vedervi quell’apparentamento che si evidenzia nella produzione di MAGA, ovvero Massimo Garrone. Siamo davanti ad un artista che, appartenente al clima della contestazione degli anni ‘70, ama giocare con il colore, con i materiali, ama sperimentare, creare in modo estemporaneo, ma sempre con un’attenzione alla storia, alla cultura e alla forma. Se muove i suoi passi dall’ispirazione informale del mondo di Fontana e di Burri, elabora un interessante astrattismo in cui possiamo rintracciare parentele segniche con Bridget Riley, Hans Hartung, ma persino Piet Mondrian, per i colori e per il senso del geometrismo e Jean Dubuffet capostipite dell’Art Brut. Alcune opere sembrano evocare le composizioni di Alberto Magnelli, geometriche e morbide ad un tempo, attraversate da rette che sembrano reclamare con forza l’istanza geometrica nell’amalgama del colore. In Garrone c’è l’inquietudine della ricerca, della sperimentazione degli stili che non solo attingono alla sua vasta cultura artistica, ma anche ad una profonda discesa nel seno degli archetipi. In una delle ultime opere, in cui vediamo figure umane metafisiche che ci ricordano i volti di De Chirico, troviamo i segni astratti che attingono all’archetipo del bosco, degli alberi, che diventano quella foresta di lance che ci fanno pensare alla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. E tra animali, cavalli, cavalieri, non possiamo non cogliere gli echi della pittura surrealista. Un artista che spazia alla ricerca di un’espressione che, pur sussumendo molte alte lezioni della storia dell’arte, è indiscutibilmente sua, perché sorge spontanea dal suo essere uomo dell’improvvisazione del fare. Oltre lo schema della teoria, per Garrone c’è la pratica della vita, il donare essere ad oggetti destinati alla pattumiera, come i tappi di sughero o i sigilli delle bottiglie. Un gusto per il recupero, per la salvezza delle cose del mondo, animata da una grande sensibilità in dialogo con una vena di trasgressione e di follia. L’informale, che violenta la forma, dialoga quindi in modo disteso con l’amore per la figura, senza alcuna necessità moralistica o didascalica, ma semplicemente ironica e creativa, un po’ come il fanciullo che evocava il grande Nietzsche.